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L’accertamento e la riscossione delle imposte sono ambiti che sono caratterizzati, in primo luogo, da termini decadenziali: fin quando pende un termine decadenziale non inizia il decorso di un termine
prescrizionale, perché il compimento dell’attività prevista a pena di decadenza è la condizione per l’esercizio del diritto, diritto che di conseguenza soggiace a termine prescrizionale.
Più semplicemente, una volta compiuta l’attività prevista a pena di decadenza, inizia a decorrere la prescrizione per l’esercizio del diritto.
La conferma di ciò si può ritrarre dalla natura della decadenza e dal principale tratto che la differenzia dalla prescrizione: nella decadenza risultano irrilevanti le “condizioni subiettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine”, (A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Giuffrè Editore, Milano, 2011, pag. 227) ed il termine non è soggetto a interruzione. La previsione di un termine decadenziale fa sì che il contribuente non sia assoggettato né assoggettabile all’azione degli Uffici illimitatamente nel tempo.
Si può quindi affermare che l’Amministrazione finanziaria, laddove debba esercitare un’attività entro un termine decadenziale- per esempio la notifica della cartella di pagamento- debba agire nel rispetto del termine di decadenza fissato dal legislatore; se rispetta tale termine, cioè, nell’esempio fatto, se notifica la cartella di pagamento tempestivamente rispetto alla decadenza, allora dopo potrà esercitare il proprio diritto, che stavolta sarà soggetto al termine di prescrizione.
Così riscostruito il rapporto tra decadenza e prescrizione, cioè il momento in cui iniziano a decorrere i due termini, è possibile concentrare l’attenzione su quale sia, effettivamente, il termine prescrizionale di un tributo.
Iniziando da Irpef, Irap e Iva, dovrebbe- il condizionale è d’obbligo- trovare applicazione l’art. 2946, cod. civ., cioè il termine di prescrizione decennale.
In realtà, non per tutti appare così pacifica l’applicabilità della disciplina generale della prescrizione.
Il problema sorge in base a due considerazioni diverse ma, al tempo stesso, legate tra loro: da un lato, la prospettazione per cui i tributi potrebbero essere considerati prestazioni periodiche ex art. 2948, n. 4, cod. civ., assoggettati quindi alla prescrizione “breve” quinquennale; dall’altro, l’applicabilità dell’art. 2953, cod. civ., recante la disciplina della c.d. actio iudicati, cioè della conversione del termine prescrizionale in caso di formazione di giudicato.
Iniziamo dalla prima: i tributi possono considerarsi prestazioni periodiche ex art. 2948, n. 4, cod. civ., oppure sono istituti per i quali vige la prescrizione ordinaria ai sensi dell’art. 2946, cod. civ.?
Quello che può dirsi per certo è che, in materia di tributi locali, la giurisprudenza di legittimità si è ormai consolidata nel ritenere applicabile la prescrizione quinquennale perché si tratterebbe di vere e proprie prestazioni periodiche, visto che il contribuente-utente è tenuto a pagare periodicamente una somma che, per quanto autoritativamente determinata, costituisce il corrispettivo di un servizio a lui reso o da lui richiesto (per esempio concessione di suolo pubblico) o imposto (per esempio tassa smaltimento rifiuti).
Ma come si passa dalla prescrizione quinquennale di un tributo-prestazione periodica alla prescrizione breve per i tributi erariali (e, in generale, per ogni tributo)?
Lo sforzo di attrazione concettuale di ogni tributo alla categoria della prestazione periodica è stato aiutato, per così dire, dall’apparente equivoco che si creato intorno all’applicabilità dell’art. 2953, cod. civ., alla materia della riscossione dei tributi.
A seguito della sentenza n. 23397, resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 27 novembre 2016, si è venuto a creare, anche nella giurisprudenza di legittimità, un filone interpretativo a mente del quale la prescrizione di ogni tributo sarebbe quella “breve” ex art. 2948, n. 4, cod. civ., perché sarebbe da escludere, in caso di mancata impugnazione dell’atto di riscossione, la conversione del termine breve di prescrizione in quello ordinario, cioè non troverebbe applicazione, avverso i provvedimenti amministrativi definitivi, l’art. 2953, cod. civ. (in tal senso si vedano Cass. nn. 930/2018 e 1997/2018).
In realtà, a ben vedere, la richiamata pronuncia delle Sezioni Unite del 2016 in nessun modo aveva affermato una cosa del genere, anzi: resa nell’ambito dove la materia era effettivamente caratterizzata da una prescrizione quinquennale (cioè la materia contributiva), le SS.UU. ebbero ad affermare che l’intervenuta definitività di un provvedimento amministrativo per mancata impugnazione è fattispecie non equiparabile a quella del passaggio in giudicato della sentenza che conferma la legittimità del provvedimento amministrativo impugnato, estendendo il principio dell’inapplicabilità della conversione del termine breve alle ipotesi in cui un atto della riscossione fosse divenuto definitivo non per sentenza passata in giudicato, ma per mancata impugnazione da parte del destinatario.
Ritenendo, quindi, che la mancata impugnazione della cartella di pagamento faccia scattare la prescrizione decennale di cui all’art. 2953, cod. civ., si è giunti a sostenere che anche i tributi erariali sono assoggettati a prescrizione quinquennale.
Non risulta condivisibile la prospettazione di qualsiasi tributo come prestazione periodica in quanto i tributi, a differenza delle entrate di diritto privato, sono caratterizzati dalla coattività, non dalla sinallagmaticità (F. Tesauro, Istituzioni di Diritto Tributario, Parte Generale, Milano, 2016, pag. 4) e sono imposti con un atto dell’autorità: il tributo si corrisponde non certo per volontà ma per il realizzarsi di un presupposto normativamente predeterminato, a differenza di un qualsiasi contratto a prestazioni periodiche, la cui adesione è frutto di una scelta del contraente.
Inoltre, anche il tema della “periodicità” risulta essere foriero di equivoci, perché per giustificare la
periodicità del tributo si rischia di confondere l’obbligo di dichiarazione con quello di pagamento-versamento: nell’ambito, per esempio, del reddito d’impresa, la realizzazione di una perdita determina certamente l’obbligo di dichiararla ma non necessariamente porta con sé un obbligo di versamento (mentre risulta evidente che l’obbligazione derivante da un contratto di somministrazione certo non guarda alle condizioni reddituali del contraente).
Stessa cosa dicasi per “casi limite” come quello del contributo consortile per le opere di bonifica, la cui debenza è, ovviamente, subordinata al realizzarsi di un presupposto, che peraltro deve essere verificato anno per anno (id est per ogni singolo periodo d’imposta).
In realtà, le imposte sui redditi e l’Iva possono essere definiti “tributi periodici” perché hanno come presupposto una fattispecie che si prolunga nel tempo, per cui assume rilievo giuridico un insieme di fatti che si collocano in un dato arco temporale, mentre altri tributi, come l’imposta di registro, possono definirsi “istantanei” perché hanno per presupposto un fatto istantaneo (per esempio un acquisto immobiliare).
Come si nota, la periodicità non attiene alla “prestazione” e l’accostamento tra tale distinzione “concettuale” (tributi periodici / istantanei) e le prestazioni periodiche di cui all’art. 2948, n. 4, cod. civ., risulta una forzatura: l’assoggettamento al tributo non è rimessa alla libera scelta del contribuente e l’unica periodicità di cui si può parlare è quella che attiene alla formazione del presupposto o, al massimo, della base imponibile).
Ecco perché Irpef, Irap e Iva si prescrivono in dieci anni, ai sensi dell’art. 2946, cod. civ.
Rimane ora da vedere, brevemente, perché nella materia che ci interessa risulta irrilevante la disposizione di cui all’art. 2953, cod. civ. In realtà, i motivi per cui l’art. 2953, cod. civ., sia norma estranea all’ordinamento tributario sono molteplici e possono qui solo essere così sintetizzati: la sentenza tributaria non è una sentenza di condanna così come richiesto dalla norma codicistica e la riscossione esattoriale non è subordinata al passaggio in giudicato della sentenza (si parla infatti di riscossione frazionata in pendenza di giudizio).
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